11.04.2020 – Intervista a cura di A. COCCO
Ecco le parole di don Luigi Maria Epicoco teologo e scrittore,preside dell’Istituto Superiore Scienze Religiose Fides et Ratio ISSR dell’Aquila, intervistato da Andrea Cocco:
La confessione ai tempi del corona virus: qual è il modo per confessarsi davanti a Dio e non davanti al confessore?
Allora, qui le parole hanno un peso specifico. Non dovremmo parlare di confessione, in quanto a confessione è un sacramento. Quello che ci viene suggerito in questo periodo non è la stessa cosa di vivere un sacramento ma è un invito a fare un esame di coscienza, poter chiedere perdono al Signore. E’ un atteggiamento interiore più che altro che non ha la stessa valenza del sacramento ma che in una situazione del genere ci aiuta, oltre che a toccare i nostri limiti, ad avere la consapevolezza dell’amore di Dio. Certamente il Signore agisce anche là dove noi con la nostra consapevolezza cerchiamo di renderci conto dei nostri limiti e dei nostri peccati. Quindi non è una confessione ma è una richiesta di perdono.
La valenza di questo tipo di confessione è la stessa di quando si va dal confessore?
No. C’è soltanto un caso in cui le cose si avvicinano moltissimo: se si è in pericolo di morte. In quel caso, un atto di contrizione perfetta, cioè una consapevolezza profonda di quello che è accaduto dentro la nostra vita, una richiesta di perdono ha anche valore di liberazione dentro quella persona.
In questi giorni stiamo vivendo anche dei momenti di adorazione del Santissimo Sacramento. E’ la stessa cosa farlo a casa o in chiesa?
Qui siamo in un ambito completamente diverso, che ci permette di dire un parola su che cosa sia la vita spirituale: una relazione con qualcuno. Quando si ama qualcuno o si ha una relazione con qualcuno, naturalmente si cerca la presenza e c’è una grandissima differenza tra stare fisicamente con qualcuno e stare magari dall’altra parte del mondo e vedersi solo attraverso degli strumenti. In quel caso gli strumenti diventano un modo per rendere possibile la relazione ma ciò che conta è la relazione. Quindi l’atteggiamento che ha una persona da casa nell’adorare il Signore e l’atteggiamento che ha una persona quando fisicamente si trova nella chiesa ha lo stesso valore quando noi pensiamo al Santissimo non come un oggetto ma come una “relazione”. In questo momento noi dobbiamo difendere con tutti noi stessi la relazione con Cristo, quindi ben venga che da casa possiamo ricordarci di questa relazione.
Quindi il Signore interviene lo stesso?
Certo. Noi dimentichiamo che come Gesù è realmente presente nell’Eucarestia è misteriosamente presente nel cuore di ognuno di noi; quindi tutte le volte che una persona apre la porta del cuore non trova solo la propria parte psicologica, le proprie ferite, le proprie paturnie, ma trova anche la presenza del Signore che abita nel profondo del nostro cuore. Dovremmo imparare questa preghiera interiore che davvero ha un valore di adorazione: è il riconoscimento di una presenza che ci abita.
Come seguire la Messa on line, da casa?
Non seguirla come se stessimo guardando un film o un programma televisivo. Solitamente, quando guardiamo uno schermo ci mettiamo nell’atteggiamento degli spettatori, invece quando partecipiamo a un atto liturgico, anche attraverso i social non dobbiamo mai metterci come degli spettatori ma dobbiamo anche noi in qualche modo partecipare. Così come in una chiesa ci sediamo, ci alziamo, ci facciamo il segno della croce, rispondiamo, anche quando siamo a casa non dobbiamo dimenticare di sentirci interpellati. L’atteggiamento di chi guarda e basta non ha nessun valore per chi vuole partecipare davvero a una liturgia attraverso i media. La cosa triste è che spesso siamo spettatori anche quando siamo in chiesa. A casa potremmo sentirci “buffi” a fare tutti quei gesti che si fanno solitamente in chiesa, perché noi funzioniamo soltanto quando veniamo visti dagli altri, ma in realtà il nostro rapporto con Cristo è sempre un rapporto nel segreto. Quei gesti anche se li compiamo a casa nostra e nessuno ci sta guardando hanno un valore profondo in rapporto a Cristo non in rapporto a quanto gli altri si accorgano di come noi partecipiamo a quella liturgia. Quindi il modo di vestire, di partecipare, di essere, di rispondere, dice con quanta fede stiamo partecipando a quella liturgia.
Stiamo comunque santificando le feste?
I nostri vescovi ci hanno dispensato dall’andare fisicamente in chiesa, quindi questo per noi è il modo di compiere, non il “dovere cristiano” ma quello che ci fa essere cristiani.
Che ruolo avranno i social nella chiesa dopo che in questo periodo sono diventati fondamentali per la comunicazione?
Il grande rischio che noi corriamo è di confondere le connessioni con le relazioni, il virtuale con il reale, pensare che una connessione sia in sostituzione di una relazione: questo non può mai essere. Il mondo virtuale è un modo per amplificare una relazione ma mai di sostituirsi ad essa. Non dobbiamo pensare che, siccome in questo momento siamo obbligati a utilizzare questi mezzi di comunicazione per vivere ad esempio una liturgia, questo possa essere mantenuto tale e quale anche alla fine di questa emergenza, come se una cosa valesse l’altra. Ben vengano i social quando ci aiutano a rendere possibile una relazione in un momento di difficoltà ma in realtà è una grande maledizione poter pensare che quel social si può sostituire o sovrapporre ad una relazione.
Anche la chiesa si è adeguata ad utilizzare questi mezzi: possono essere utili a comunicare anche in futuro?
San Paolo ci ha insegnato che ci sono modi di annunciare la parola di Dio, opportuni e non opportuni, ogni momento e ogni situazione può essere favorevole per annunciare il Vangelo. Se i social sono anche uno strumento per annunciare il Vangelo, ben venga. L’unica cosa, non caricarli di messianismo: non è il social in sé che ci salva la vita, ma è quello che diciamo, quello che viviamo, quello che facciamo.
Quale impatto ha avuto l’intervento del Papa il 27 marzo in una piazza an Pietro vuota?
Secondo me ha avuto un valore simbolico straordinario. Nelle ore successive, ma anche durante quel momento, molti sottolineavamo il vuoto della piazza, la desolazione di quel momento con una piazza vuota e un papa, anziano, che nella sua fortezza ma anche nella sua debolezza, pregava, annunciava il Vangelo, benediceva, intercedeva. Io ho voluto leggere dietro quel gesto qualcosa di più grande: l’abbraccio del colonnato del Bernini non stringeva il vuoto ma si allargava al mondo intero: in quel momento tutto il mondo era presente davanti al papa, e lui alle porte di San Pietro davvero ha fatto il pontefice: la parola pontefice significa “ponte”; è stato colui che si è messo in mezzo tra Dio e gli uomini e ha detto a Dio le parole che noi avremmo voluto dire, e ha detto a noi quello che Dio probabilmente voleva dirci in quel momento. In una parola: è stato davvero un grande.
Che tipo di intervento è stato quello del Papa? Ha soltanto portato le preghiere del popolo o è stato qualcosa di più?
Lui ha citato un brano del Vangelo molto bello: il momento n cui i discepoli presi dalla tempesta hanno paura di morire e gridano a Gesù “non ti importa che noi moriamo”. E’ una preghiera di una sincerità immensa; forse anche a noi in questo momento ci verrebbe da dire: “ma Signore, non ti importa quello che stiamo vivendo?”. E’ bello poter sapere che nel Vangelo ci sono le nostre stesse domande, le nostre stesse crisi, forse anche le nostre stesse parole e che Gesù a quelle domande non risponde come noi vorremmo, non risponde con una spiegazione o risolvendo le cose cosi come noi ce le immaginiamo ma inserendoci all’interno della realtà in maniera molto più profonda Questo penso che il papa abbia fatto durante qul momento, si sia fatto voce della nostra domanda, che a volte è una domanda angosciata, disperata se vogliamo…ma c’è anche quella risposta di Gesù che non è fatta di ragionamenti di filosofie ma è fatta di una presenza. In fondo Dio ha risposto al male del mondo non regalandoci dei libri o dei ragionamenti, ma con il figlio…non con qualcosa ma con qualcuno. Dovemmo imparare che c’è una misteriosa presenza che inonda l’angoscia che stiamo vivendo.
Ultima domanda: in questi giorni stiamo indossando una mascherina per proteggerci dal virus. Qual è la mascherina della fede che possiamo utilizzare contro il male?
Il nostro battesimo. Il battesimo dice che noi siamo figli di Dio, che non siamo semplicemente delle creature nate dal caso e buttate nell’esistenza e basta. Quando una persona si dimentica di essere d qualcuno, tutte le infezioni della vita lo assalgono perché diventa infelice, ansioso, pauroso, insicuro. Noi dobbiamo indossare costantemente il nostro battesimo come l’unica mascherina che ci protegge dalla disperazione. Ricordarci di avere un Padre, di non essere soli, di essere di qualcuno: questo è il miglior antidoto anche per attraversare le situazioni più difficili e i momenti drammatici come quelli che stiamo vivendo. Anche la preghiera è uno strumento importante: non la preghiera intesa come “dover convincere Dio di qualcosa”…questa è una preghiera pagana, cioè pregare per convincere Dio a farci una grazia o per salvarci da una pandemia..come se Dio avesse bisogno di essere convinto da noi nell’amarci. La preghiera serve a cambiare noi, a convertire il nostro cuore, a ricordarci che siamo in relazione a qualcuno, che esiste una presenza davanti a noi. In questo senso la preghiera ci salva la vita perché ci ricorda chi siamo e di chi siamo.